Area Lettura

Estratto da La Torre di Cinquecolli

Intro
Ci sono errori che possono esser commessi una volta sola. – Teclo, “Il ricordo”

Il Folle si muoveva per le fatiscenti strade dell’antica città, e la rovina camminava con lui. Barcollava sotto il peso della pioggia e dei suoi rimpianti, avanzando incerto, travolto dalla folla ma libero da ogni paura. Ricordava il tempo in cui le risa e la musica riempivano quelle stesse vie, colme dei sogni e delle vite della gente. Ricordava la ricchezza, lo spirito, i brindisi ed il canto. Ricordava il sole, la brezza ed i verdi cortili. Lo chiamavano Il Folle, ora, perché nei suoi occhi vedeva ancora la gloria di quel luogo dove gli altri vedevano solo miseria, ed ancora non si era abbandonato alla tragedia. Ricordava tutto questo, mentre gli altri avevano dimenticato. Si erano arresi, mentre lui nell’ombra tramava.


“Vedrete, oh sì, vedrete. Lo faccio per voi, lo faccio, lo faccio per noi. Io ricordo, non dimentico nulla, vero tesoro mio? No, no, io non dimentico”


Il Folle viveva tra gli angusti vicoli, dormendo negli angoli nascosti alla vista, vestendo del ricordo dei suoi nobili abiti. Viveva nei suoi ricordi, ed ai suoi ricordi parlava.


“Presto, amori miei, presto torneremo a banchettare coi nobili tutti. Baroni, marchesi, duchi e visconti…Oh sì, aspetta e vedrai. Bisogna chiamare Berard, che inizi a preparare, sì…sì ci sarà un sacco da preparare, con tutti quegli invitati”


Parlava da solo, il Folle, e nessuno badava a ciò che diceva. Ma lui sapeva, sapeva bene che le loro calunnie non avevano alcuna importanza. Lui sapeva, lui ricordava.


Saliva ora una stretta scala di pietra, e poi un’altra, diretto verso le alte mura, camminando tra il fango e quel che restava del selciato. La paura e la rassegnazione di quella povera gente. Poveri, poveri tutti. Loro non sapevano, loro non ricordavano. Il tempo dei banchetti, delle conquiste, della grandezza e del rispetto. Lo sfarzo dei palazzi e dei castelli dell’imperiale dinastia del Kohrstnach, ora abbandonati nella nebbia, nelle vallate abbracciate dall’oscurità.


“Se l’Imperatrice vedesse cos’è successo in sua assenza…un prezzo alto da pagare! Ridiamo ora ahahahah, finché possiamo…non ci sarà più da ridere, ve l’assicuro…povera gente…”


Vivevano di stenti, ora, vivevano per volontà di altri. Non lui, lui viveva ridendo delle loro minacce. Arrivò al culmine delle mura e tra i merli poté osservare quel grigio orizzonte dominato dalla grande armata della Croce, l’antico regno di Erthram che aveva distrutto la sua terra, il suo orgoglio ed il suo popolo, ed ora assediava la sua città.


“Pensano d’averci schiacciato, Cynefrid, pensano d’aver vinto” disse rivolto ad una sorella che non c’era più.


“Scacco matto! Hanno gridato, ma loro non sanno, non hanno guardato bene la scacchiera. Il re non può più muovere! Non avete più pezzi! Hanno i cavalieri, loro, gli alfieri, i pedoni e la regina. Oh sì, la loro bionda regina! Ma loro non sanno, non hanno visto, accecati dalla loro superbia…” estrasse la mano dalla tasca, mostrando un piccolo polpo nero contorcersi sul suo palmo, “…io ho una Torre, piccolo mio, ed in questo gioco, chi ha la Torre vince!”

Capitolo I

 Raccontare del mondo antecedente la fondazione delle Corti è impresa assai ardua, dato che la memoria delle antiche genti e delle loro divinità si è persa nelle pieghe del tempo e della leggenda. Di loro altro non è rimasto che un lontano ricordo. Mi è stata però affidata la procura, dalla nostra Suprema Luce, di raccogliere tra le pagine di questo libro le cronache degli eventi che condussero al mondo così come tutti lo conosciamo oggi, e molto da riflettere mi ha dato tale incarico. Non potrei, per fare questo, certo esimermi dal narrare della Guerra delle Vergini, della caduta dell’Impero di Eunar o della perdita del Mare di Centro. Potrei mai compiere tutto questo senza interrogarmi sugli dèi dell’antichità e sui loro popoli, che scatenarono tali eventi? Resta il fatto che, dovessi infine scegliere di accettare un compito tanto oneroso quanto onorevole, altro non potrei fare se non cominciare dal tempo delle cinque Torri, e dalla storia dei loro Custodi. – Æthan Stoneworth, “Cronaca Prima dell’Imperio Lucis” 

Un bianco petalo portato dal vento si posò sul selciato ai piedi della cattedrale. Cullato a lungo dalle correnti, era stato spinto al di sopra delle nuvole, quel soffice mare che circondava le cime delle montagne in quel luogo dimenticato. Sorgevano lì i resti di un’antica civiltà. Cupole ed archi adornavano templi e cattedrali scolpiti nella dura roccia, ad eterna memoria di un tempo passato ed ormai in rovina. Il piccolo Sam non sapeva come mai si trovasse lì, né come vi fosse arrivato. Alle sue spalle i gradini cesellati nella pietra discendevano lungo il costone, perdendosi nella nebbia, mentre innanzi si apriva l’immensità dell’orizzonte dipinto dal tramonto. 

Si addentrò tra le case e i cortili che giacevano nell’immobile inquietudine dell’eternità. Gli alberi, ormai pallidi scheletri senza vita, parevano volgersi al sole per godere di una luce che non poteva più scaldarli. Sbirciò tra gli archi di una corte, in cerca di qualcuno che potesse aiutarlo, ma trovò solo cumuli di foglie secche ammucchiate nei cantoni delle alte pareti. Vagò per gli stretti ponti a strapiombo, per le ripide strade e tra i chiostri colonnati. Vide i bianchi stendardi ormai spogli delle loro insegne pendere da quel che rimaneva delle antiche torri e dell’anfiteatro, simboli dimenticati di un antico orgoglio. Non trovò nessuno, soltanto ricordi. Grigi ricordi scolpiti nella montagna. 

Il petalo parve brillare, sfiorato dai cremisi raggi del sole, tanto che Sam si ritrovò con lo sguardo volto alla grande cattedrale. Alta e caparbia, innalzata per incontrare la gloria dell’ultima luce oppure per sfidare quella del cielo, nessuno avrebbe potuto più dirlo. Giaceva ora sconfitta ma fiera, diroccata e priva d’ogni colore, salvo quanto le veniva donato dall’abbraccio del crepuscolo. 

Un’alta figura era in piedi all’entrata, immobile, incorniciata dall’immenso arco lasciato dal portone monumentale ormai scardinato e in pezzi. Sembrava effimera nella sua pallida essenza, tanto incorporea quanto reale, ed osservava Sam con occhi tristi. Lui fece allora per chiamarla, ma lei si portò un dito alla bocca imponendogli il silenzio, impedendogli d’emettere un qualsivoglia suono. Un immenso e sommesso boato si udì nelle profondità della montagna, echeggiando per le logge abbandonate. Tutto cominciò a crollare nella nebbia sotto di loro, lei svanì all’interno della navata e lui si mise a correre per raggiungerla. La città franò, mettendo fine a quell’eterna immobilità. La piazza si ruppe in un’ampia voragine e Sam cadde inghiottito nell’oscurità, un delicato petalo bianco al suo seguito.  

Quando Sam aprì gli occhi di soprassalto, si accorse d’esser sdraiato tra ceste e barili colmi di frutta, in particolare una grande quantità di mele e di pere. 

Oh accidenti, mi sono addormentato…dove sono?

La luce del mattino inondava la campagna, filtrando attraverso le foglie degli alberi creando un mosaico di ombre ondeggianti sullo stretto sentiero sterrato. Intorno a lui una terra fertile dalle dolci colline coperte di vigneti e uliveti, intervallati da campi di grano dorato, si estendeva fino all’orizzonte incorniciata dalle lontane montagne. Nonostante i veloci battiti del suo cuore, si rasserenò un poco rendendosi conto d’essersi risvegliato nella Valle di Calmo.

“Finalmente sveglio!” gli fece il signor Sottoquercia seduto sulla panca del conducente con le redini tra le mani.

Sam, un giovane nami di campagna dalle grandi orecchie e dagli occhi curiosi, stava ora seduto sul retro del carro mentre due pony, con passo lento ma deciso, li trainavano per i sentieri sterrati. 

“Dove siamo? Non mi ero accorto d’essermi addormentato, stavo perfino sognando. Un sogno strano tra l’altro… Chiedo scusa, davvero, non pensavo d’esser così stanco…” rispose rimettendosi in ordine, cercando di riacquisire un contegno. 

Avevano viaggiato giorni interi per raggiungere il villaggio dove avrebbe preso servizio come custode della Torre e non vedeva l’ora finalmente di arrivare. Una responsabilità importante, quella che lo aspettava, soprattutto per uno come lui, fino a poco tempo prima vissuto come semplice fattore nella piccola valle in cui era nato.

“Oh, non fa nulla davvero. Abbiamo superato il passo del Monaco da un po’ ormai, non manca molta strada”

La campagna colma di cipressi alti e sottili, allineati lungo i sentieri, era qua e là tinteggiata da piccoli casolari in pietra chiara, con tetti di tegole rossastre che aggiungevano un tocco pittoresco e familiare al paesaggio. Fiori selvatici ne coloravano i prati. Il profumo del rosmarino e della lavanda, mescolati nell’aria calda e secca, era trasportato da una brezza leggera che portava con sé il cinguettio degli uccelli quanto il ronzio degli insetti. Quella era una bella giornata.

“Non è comunque una buona scusa per lasciarti solo a condurre per queste strade” rispose mentre si metteva comodo vicino al caro signor Sottoquercia che lo aveva gentilmente accompagnato fino a lì.

“Eri così eccitato nei giorni scorsi che a malapena chiudevi occhio. Non pensare che non l’avessi notato io, eh. Ero sicuro che prima o poi saresti crollato” sottolineò l’anziano con una fragorosa risata.

Allora se n’era accorto…ed ha ragione, erano giorni che non chiudevo occhio, in effetti…ormai ci siamo quasi dai…

Sam aveva risposto giorni prima ad un annuncio apparso nel suo villaggio, su ad Altavalle. 

Cercasi custode per la torre di Cinquecolli”, recitava perentoria la pergamena esposta nella bacheca del sagrato della chiesa, promettendo anche un alloggio e un modesto compenso. 

Nessuno sembrava sapere chi l’avesse affissa, ma il giovane aveva nondimeno deciso che lasciarsi sfuggire quell’occasione sarebbe stato imperdonabile. Si era quindi procurato carta, penna ed inchiostro, e aveva inviato una missiva in tutta risposta, raccontando del suo amore per la natura e della sua abilità nel prendersi cura delle cose. 

Ho badato sin dalla più tenera età al frutteto dei miei, so leggere e scrivere nella lingua comune delle valli e sono preciso nello svolgere i miei compiti”, aveva annotato nella sua risposta stesa al meglio delle sue capacità. 

Sinceramente non aveva pensato poi molto a quella faccenda. Non perché non fosse davvero interessato a lasciare la fattoria di suo padre, ma perché preferiva non alimentare in sé stesso false speranze. Era un ragazzino molto pratico ed era tornato presto a dedicarsi alle sue faccende senza lasciare che le fantasie portassero la sua immaginazione più lontano di quanto non fosse appropriato. 

Qualche settimana più tardi, con sua grande sorpresa, aveva però ricevuto una risposta.

Sam” iniziava la missiva, “sei stato scelto per il tuo spirito diligente e la tua dedizione. La Torre ti aspetta con impazienza. Se ne sarai all’altezza, ne sarai il Custode” Quella nota aveva animato in lui una scintilla di avventura e una speranza per un futuro che gli fosse davvero proprio, dopo tutti quegli anni passati a dare una mano alla sua famiglia.

Le tegole sbiadite del villaggio apparvero quasi all’improvviso in mezzo alle fronde degli alberi, incorniciate da colline verdi e viottoli ciottolati, attraversati da un calmo fiume che scintillava al sole. Era il giorno del mercato del sabato e la piazza, circondata da alberi robusti, era piena di bancarelle colorate, voci allegre e profumi invitanti. Sam si guardò intorno, mentre i pony del signor Sottoquercia si facevano largo a fatica tra la folla, osservando la gente che si scambiava saluti e merci con un’atmosfera di gioiosa tranquillità nelle strette vie che salivano e scendevano per i colli.

“Non ho mai visto tanta gente tutta insieme” notò il giovane con gli occhi pieni di meraviglia. 

“Oh sì, il mercato qui è una cosa seria, c’è gente che viene anche da lontano. Cinquecolli non è la nostra Altopasso, questo è sicuro”

Tutta la valle era popolata per la maggior parte da Nami, gente semplice dalle orecchie grandi che ad un’occhiata distratta di un uomo sarebbero potuti sembrare poco più che bambini. Vivevano nelle valli da innumerevoli generazioni ed il loro rapporto con la terra ed i prodotti genuini erano parte integrante della loro essenza. Vivevano in pace, ed erano gente per bene. O per lo meno così si sarebbero definiti con chiunque avesse avuto l’impudenza di metterlo in dubbio. 

Le loro fertili valli sfociavano a strapiombo sul mare, ad ovest, e le alte montagne tutt’intorno li avevano per millenni protetti dagli sguardi indiscreti delle creature dei regni confinanti, fossero questi Uomini, Elami o quant’altro. Fatta eccezione per qualche mercante, nelle valli non v’era altro che Nami.

Tra la folla, difatti, Sam notò diverse genti di cui prima d’ora aveva soltanto sentito parlare. Era una mescolanza del tutto naturale di razze e di culture, per un centro come quello della Valle di Calmo: una vecchia signora vendeva carote fresche mentre al suo fianco un giovane Volpe dalle ampie vesti ricamate smerciava tessuti ed un Lepre anziano intratteneva un gruppetto di bambini leggendo poesie illustrate. Tutti parevano conoscersi e c’era molta confidenza negli sguardi e nei discorsi che si potevano udire passando. Diversi ambulanti fecero gesti di saluto rivolti al loro carro, finché non si fermarono al limite del sagrato di una piccola ma solida chiesa. 

Aveva sentito parlare della chiesa di Cinquecolli in passato, casa del mitico Albero delle Valli. Vista così, però, sembrava una chiesa qualunque. Con un portone qualunque, un rosone qualunque ed un tetto qualunque. Un misto di mattoni e pietra chiara coperto da spesse tegole di terracotta, senza troppi decori od orpelli superflui. Pareva molto vecchia ma ben curata e Sam si stava giusto chiedendo come potesse esserci davvero un albero lì dentro, quando venne riportato d’improvviso alla realtà dalla voce del suo accompagnatore.

“Eccoci arrivati…” disse Sottoquercia scendendo dal carro e prestando attenzione ai suoi pony stanchi per il tanto camminare, “…da qui in poi dovrai proseguire a piedi per tuo conto” aggiunse sorridendo. 

“Lascia almeno che ti dia una mano a scaricare le cose. È il minimo che possa fare per sdebitarmi del passaggio!”

“Oh, non ti preoccupare, i fattori manderanno qualche ragazzino a prendersi la loro roba. La compagnia durante il viaggio è stata moneta sufficiente ed anche il tempo ci ha graziato. Non potevamo chiedere un viaggio migliore. Pensa ad andare alla tua torre adesso, c’è ancora un bel pezzo da camminare fuori dal villaggio prima di arrivarci. Vedi piuttosto di non perderti tra le bancarelle, e non perdere tempo a provare tutte le cose che ti vorranno offrire. Questi ambulanti sanno come vendere le loro cianfrusaglie e tu non hai soldi da sperperare”

“Grazie davvero” fece Sam mettendosi in spalla il suo grosso bagaglio preso dal carro, “la prossima volta che salirai nella valle però passa a trovarmi!” Concluse sorridendo.

Diede un pezzetto di carota ai pony come ringraziamento per il comodo viaggio, abbracciò il vecchio amico di suo padre e si mise in cammino. La torre del mago lo aspettava, e sapeva che c’era ancora molto da fare.

Vediamo un po’ dove devo andare…

Non sapendo di preciso la strada, chiese indicazioni agli ambulanti che strillavano gioiosamente dalle loro bancarelle strette tra gli alberi, rapito dalla moltitudine di colori e odori. Il mercato di questo paese era decisamente più grande e variegato di quanto fosse quello di casa sua, e se il suo piccolo villaggio pareva poco più che una fattoria sorta vicino ad un ruscello, questo pareva invece un boschetto da tanti erano gli alberi e le siepi disposti un po’ ovunque. Era da sempre stato abituato a poche bancarelle prettamente gestite dalle fattorie dei suoi vicini nella valle, mentre Cinquecolli sembrava attirare mercanti veri e propri che portavano anche spezie di terre lontane. Non aveva in effetti mai visto spezie e terre pigmentate, prima d’ora, e ne rimase conquistato. 

Dovrò tornare a fare un po’ di spese quando mi sarò sistemato per bene alla torre…si ripromise, senza badare troppo al fatto che non aveva denaro da spendere.

Ottenuta qualche indicazione, seguì per qualche tempo il sentiero che si snodava fuori dal villaggio abbandonando la dolce ombra dei platani e dei castagni, costeggiando il fiume come gli era stato consigliato, giungendo infine nelle prime ore del pomeriggio ad una costruzione bassa ma imponente. 

La torre di pietra era coperta di polvere e rampicanti, le finestre sembravano chiuse da anni e tutto sembrava chiaramente trascurato. Si ergeva larga e tozza, non molto alta, una struttura grezza che dominava la cima d’un colle cinto da alberi che si allungavano come sentinelle silenziose. Alle sue spalle un bosco denso e misterioso incombeva e sembrava volerne inghiottire il giardino. L’ingresso era cinto da una piccola staccionata che aveva sicuramente vissuto anni migliori. I rovi e le erbacce avevano ricoperto ed invaso gli spazi dedicati al vialetto, al piccolo pozzo in pietra ed alle aiuole. Un cartello di legno ormai crepato e coperto dal muschio recava incisa una scritta appena leggibile: “Torre di Cinquecolli”.

Ma qui non vive nessuno… pensò tra sé e sé guardandosi intorno, …cosa dovrei fare in un posto del genere? Vuoi dire che ho sbagliato torre? Dopo tutta questa strada…eppure il cartello… 

Indeciso sul da farsi, convenne che non restava altro che entrare e cercare di capire meglio come stessero davvero le cose, oppure tornarsene indietro al villaggio. Si guardò intorno, buttando un’occhiata sconsolata alla strada che scendeva lungo il colle e con un sospiro di rassegnazione si fece largo tra la vegetazione, spinse la pesante porta di legno ed entrò. 

L’interno era ancora più desolato dell’esterno: ragnatele ovunque, mobili e libri coperti di polvere e un’aria stantia gli fecero pizzicare il naso. Non c’era traccia del mago che avrebbe dovuto accoglierlo, solo un silenzio ed una leggera tenebra opprimente spezzata dalla luce che filtrava dalle crepe nelle imposte.

Notò in terra oltre la porta un piccolo biglietto vergato a mano. Sembrava anch’esso essere stato scritto da molto tempo, in quanto la spessa carta era ingiallita negli angoli e l’inchiostro ormai secco. Vi era scritta un’unica parola:

“Benvenuto”

Non era questa l’accoglienza che si era aspettato, né sembrava essere questa una torre abitata da un mago in cerca di un custode. Non sembrava in effetti essere abitata proprio da nessuno, e da molto tempo, tra l’altro. La lettera però parlava chiaro e la gente del villaggio a cui aveva chiesto era stata unanime: questa era l’unica torre presente nella valle. Si mise il biglietto in tasca ed appoggiò l’ingombrante bagaglio su una grossa panca di legno, alzando una nube di pulviscolo. 

“C’è nessuno?” chiamò a gran voce, “Sono il nuovo custode della torre! Mi chiamo Sam!”

Ebbe soltanto il suo eco in risposta.  

Che fosse questa una sorta di prova? Non si poteva mai sapere quando si aveva a che fare con stregoni e fattucchiere, non che ce ne fossero molti in giro per le terre delle valli. Uno poteva passare una vita intera senza incontrarne mai, tanto che erano in molti a credere che ormai si trattasse soltanto di leggende o superstizioni, e che gli ultimi tra i maghi fossero scomparsi molto tempo addietro, all’apice delle antiche civiltà. I Nami sapevano, però, che era meglio non farsi mai troppo beffe di leggende e superstizioni.

Cosa dovrei fare adesso in un posto del genere? Prese un fazzoletto e pulì una parte della panca per sedervici un po’ sconsolato. 

Sono probabilmente passati anni dall’ultima volta che qualcuno ha messo piede qui dentro. La polvere ne è la prova. Altro che un custode, qua c’è bisogno di tutta una servitù di gente. Si farebbe prima a buttarla giù e costruirne un’altra, di torre…uff. In che pasticcio mi sono cacciato? Sara l’aveva detto, che era meglio se me ne fossi rimasto a casa con loro… pensò sconsolato. 

Tirò fuori una mela e dette qualche morso guardandosi intorno. Non rimaneva che esplorare un poco i dintorni, addentrandosi nella penombra.

L’esplorazione fu però breve, interrotta da tutta una serie di porte che trovò chiuse a chiave. L’ampia scala che saliva nel buio dei piani superiori non conduceva ad altro che a qualche camera da letto disfatta e ad altre porte chiuse. Sfruttando la flebile luce che filtrava dalle imposte logorate dal tempo gli unici spazi del piano terreno che trovò aperti furono una robusta sala da pranzo annessa ad un’ampia cucina di pietra ed alla dispensa. Appoggiati vicino all’acquaio stavano una scopa, uno straccio ed un vecchio secchio di legno in buone condizioni. 

“Stai forse cercando di dirmi qualcosa?” mormorò Sam rivolto alla torre stessa, “Beh, sarà meglio cominciare subito se voglio passare qua almeno una notte, visto quanto sei malandata” 

Si rimboccò le maniche, prese la scopa, sbuffò mettendosi l’animo in pace e cominciò a pulire, spazzando via la polvere e aprendo le finestre per far entrare luce e soprattutto della benvenuta aria fresca. Se si fosse trattato effettivamente di una prova, era del tutto intenzionato a superarla. 

Tornato all’ingresso scopando il pavimento, un rumore leggero attirò però la sua attenzione. Una piccola gatta grigia seduta sulla soglia, incorniciata dai raggi del sole pomeridiano, lo osservava con azzurri occhi penetranti.

“E tu chi saresti mai?” chiese Sam con un sorriso stanco, avvicinandosi con cautela. La gatta miagolò dolcemente e gli si avvicinò, annusandolo e strusciandosi contro la sua gamba. 

“Allora c’è qualcuno che vive in questa torre dopotutto, eh. Io dovrei essere il nuovo custode, ma la vera custode qui se tu, non è vero? Suppongo che potremmo essere amici…” disse accarezzandole la testa mentre lei cominciava a fare le fusa. 

“Come dovrei chiamarti? Vediamo…” rifletté “…ti chiamerò Petra, se non hai nulla in contrario” Petra sembrò apprezzare il suo nuovo nome, miagolando ancora e seguendolo distrattamente mentre lui continuava a pulire. 

Con il passare delle ore, constatato che le porte al piano superiore erano perlopiù chiuse, Sam trovò e si concentrò su quella che doveva essere la sua stanza: un locale modesto ma accogliente dalle pareti in pietra che riusciva a malapena ad accomodare un letto, una scrivania con libreria ingombra di vecchi libri ed un guardaroba a due ante. In più, una piccola finestra affacciava sul giardino sul retro. Perfetto per uno piccoletto come lui, pensò. 

Spolverò i mobili, lavò il pavimento e sistemò il letto. Ogni tanto, fermandosi a riposare esausto dal lavoro, Petra si accoccolava accanto a lui offrendo conforto con la sua presenza silenziosa.

La sua mente vagò verso la lettera che aveva ricevuto, invitandolo alla torre. 

“Se ne sarai all’altezza, ne sarai il custode” recitava il passaggio che abitava spesso i suoi pensieri, e che aveva alimentato i suoi timori. 

Non si sarebbe lasciato sfuggire questa occasione. Il mago, chiunque fosse, sembrava essere qualcuno di importante. Al villaggio, tutti avevano rimarcato quale grande onore fosse per lui esser stato scelto. Alcuni si erano persino rivelati entusiasti del suo arrivo. 

Eppure di questo stregone non c’era nessuna traccia. Sam non aveva indagato oltre per non apparire troppo insicuro, dando per scontato che lo avrebbe trovato qui nella sua torre ad accoglierlo per spiegargli i suoi doveri, ma così non era stato. 

Si chiese se fosse partito di fretta o se qualcosa di peggio fosse successo. Questo posto sembrava abbandonato da tantissimo tempo, però, e non da poco. Doveva per forza essere un qualche tipo di esame per testare la sua risolutezza. Non c’era altra spiegazione. Qualsiasi fosse la verità, si disse, la torre doveva essere riportata al suo antico decoro, se davvero qualcuno avesse voluto farne la sua dimora. Non aveva assolutamente intenzione di sopportare tutta quella polvere e quell’abbandono. Questa era la sua missione e il suo dovere, si disse per farsi coraggio.

Dopo qualche altra ora spesa a pulire e a lavare, Sam decise di fare una pausa e uscì all’esterno per respirare un po’ di meritata aria fresca. Aveva starnutito così tante volte a causa della polvere accumulata sui tanti libri che invadevano letteralmente ogni angolo, da averne perso il conto. 

Davanti all’ingresso si apriva una splendida vista sulla valle sottostante, con i suoi campi che si estendevano a perdita d’occhio e il fiume che serpeggiava placido tra di essi come un nastro d’argento. Il sole ormai basso all’orizzonte, tingeva il cielo di sfumature arancioni e rosa.

Doveva essere un posto bellissimo, un tempo…chissà come mai è stato abbandonato così a lungo? 

Petra sembrava seguirlo fedelmente, esplorando il giardino con curiosità. Lui si soffermò invece ad osservare in quel momento il frutteto che affacciava sul retro, pensando a come avrebbe potuto riportarlo a vivere. Gli alberi da frutto erano sempre stati la sua specialità e la sua passione. C’era un sacco di lavoro da fare, notò, ma in effetti gli alberi sembravano essere in salute, seppure abbandonati.

“C’è della buona terra qui,” osservò notando anche i rigogliosi cespugli di fiori che crescevano selvaggi, “forse più che ad Altopasso”

Nel frattempo, dal villaggio i suoni festosi del mercato lentamente si trasformavano in canti e risate. La comunità sembrava essere unita e gioiosa e Sam si sentì sollevato all’idea di farne presto parte. Sperava che con il tempo avrebbe fatto nuove amicizie e trovato il suo posto tra di loro, anche se in effetti non aveva stretto grandi legami nemmeno a casa sua, dovette constatare.

Dannata timidezza. O forse era stato solo troppo occupato a prendersi cura delle varie colture che crescevano nella fattoria ed a cui si era dedicato fin da piccolo, per dare la giusta attenzione agli altri nami della sua età. Non avrebbe commesso due volte lo stesso errore, si ripromise, e sentì la serenità di questo nuovo inizio sollevargli lo spirito.

Decise di rientrare e continuare a lavorare finché c’era ancora luce, accompagnato dalla sua piccola aiutante che vibrava contenta.

“Ti piace non esser più qui da sola eh? Piace anche a me”

Ogni angolo della torre sembrava nascondere strati di polvere e ragnatele, oltre che testi e volumi di ogni foggia e dimensione, come se il tempo lì si fosse fermato da molto.

Prendendo una serie di barattoli e tazze da uno degli scaffali della cucina per metterli a lavare, vi trovò nascosti dietro una scatola di candele ed un libro di ricette dalla gialla copertina. Le pagine erano annerite ai bordi e l’inchiostro sbiadito, ma nel complesso era un tomo sicuramente affascinante. 

“Direi che per oggi abbiamo lavorato abbastanza” disse rivolto a Petra sedendosi al tavolo ed aprendo l’imponente ricettario che aveva trovato. Ne sfogliò le pagine, cercando di capire cosa ci fosse scritto. Non conosceva molte delle parole e degli ingredienti, ma riuscì a intuire che si trattava di ricette che spaziavano dai piatti tipici della valle a stranezze di terre lontane.

“Tu mi sarai sicuramente utile” pensò ad alta voce, richiudendolo infine con cura. 

In effetti dovrò imparare a cucinare qualcosa in più delle solite cose, se voglio vivere bene da solo. Il cucinare era in effetti la cosa che più mi preoccupava del venire qui, ricordò tra sé , se il mago avesse avuto strane richieste in fatto di piatti sarei stato nei guai fin dall’inizio… 

“Ma a quanto pare, per ora, siamo soltanto noi due…”

Con l’ultimo scintillare del sole si ritirò in quella che aveva deciso sarebbe stata la sua stanza, ora finalmente pulita e degna di un nami che si rispettasse, esausto ma soddisfatto. Accese una candela appoggiandola su un grosso libro che occupava il comodino e si sedette sul letto, osservando il bagliore tremolante illuminare le pareti di nuda pietra. Prese dalla sua sacca un pezzo del formaggio e del pane che gli restavano dal viaggio e mise dell’acqua per sé in un bicchiere ed in una ciotola per la sua piccola amica.

“Ed eccoci qua io e te” disse accarezzando il morbido pelo leggermente tigrato della gatta, che aveva preso subito a bere con la sua linguetta rosa. 

“Bisognerà che vada a comperare qualcosa da mangiare per domani, non trovi? Preferisci la carne o il pesce, piccolina?” 

La micia lo fissò incuriosita prima di dedicarsi nuovamente all’acqua fresca. 

“Visto che sembri stare benissimo e non ho visto nemmeno un topo in questa torre abbandonata, credo di conoscere la risposta da me”

“Domani, bello riposato, cercherò di capire da dove si può incominciare a sistemare il resto della torre. Non sono né uno scalpellino né un falegname ma qualcosa bisognerà pur inventarci. Per ora credo che ci meritiamo un po’ di riposo. Non trovi?”

Petra fece le fusa in risposta, chiudendo gli occhi e accoccolandosi più vicino a lui. Il giovane nami guardò fuori dalla finestra, contemplando il lavoro che lo aspettava. La torre era stata trascurata per troppo tempo, ma con dedizione e pazienza, sarebbe riuscito a riportarla ad un aspetto dignitoso. In fondo era lì per quello, no? 

Poteva sempre andarsene, in effetti. Chiedere un passaggio ad uno dei tanti mercanti giù al villaggio e viaggiare con loro. Il signor Sottoquercia avrebbe probabilmente passato la notte in locanda prima di tornare giù l’indomani. Lui sicuramente non gli avrebbe negato un viaggio di ritorno. Per fare cosa, poi? Tornare alla fattoria con i suoi fratelli? Non che ci fosse nulla di male, in fondo, suo padre aveva fatto del suo meglio per non fargli mancare nulla ed insegnargli tanto. Anche i suoi fratelli, a modo loro, lo avevano sempre fatto sentire a casa, seppur sua sorella Sara fosse in effetti la sua unica amica. Lei si stava facendo la sua vita, però, e presto si sarebbe fatta anche la sua famiglia. Altopasso era un paesino tranquillo, in cui era cresciuto sereno e lontano dai pericoli oltre le montagne. 

Quella però non era davvero casa sua, o meglio non era il luogo in cui avrebbe vissuto per il resto dei suoi giorni. Per il più giovane di cinque figli, in una piccola fattoria, che spazio c’era? Sam lo aveva in fondo sempre saputo. Nonostante fosse molto giovane, appena in età da apprendista, stava da qualche tempo pensando al proprio futuro. A come fare per costruire qualcosa che gli appartenesse davvero. 

Le vite dei nami delle valli erano vite semplici. Lo sapevano tutti bene. Nascevi in una famiglia di fattori che facevano il miele, ed un giorno avresti badato tu stesso alle arnie. Se i tuoi genitori erano gente che coltivava la terra, saresti cresciuto imparando i segreti della semina ed un giorno avresti lavorato la terra anche tu. Ma se ti ritrovavi ad esser di troppo, mentre eri ancora un bambino, d’improvviso la vita ti si parava davanti come un sentiero sconosciuto. Le opportunità, come anche i pericoli, si moltiplicavano davanti ai tuoi occhi e potevi farti una domanda che in molti nelle valli non si erano mai posti: “cosa voglio fare davvero?”

Ci aveva in effetti pensato molto. La sua passione per la natura lo spingeva a voler lavorare la terra, ma Altavalle era una valle stretta ed in quota, che non offriva la possibilità di grandi espansioni. Per prendersi un pezzo di terra suo da gestire sarebbe dovuto venire comunque in una valle più ampia, e non ce n’erano di più grandi della valle di Calmo.

Avrebbe potuto prendere la strada dei Guardaforesta e diventare uno dei protettori delle valli, ma la loro vita nomade sempre in giro tra i boschi e le montagne non si sposava molto con la sua indole tranquilla ed amante dei conforti di una quotidianità più domestica.

Il buon Sottoquercia si era offerto di prenderlo sotto la sua ala, per far di lui un mercante di tutto rispetto, ma non era sicuro la via del commercio fosse la sua strada, buono d’indole com’era. Ci voleva un certo cinismo per esser un vero mercante degno del proprio sale.

Fare per un po’ il custode alla torre, anche non fosse stato per sempre, gli avrebbe consentito d’avere il tempo per riflettere sul suo futuro. Un lusso che non molti potevano dire d’avere tra i nami.

Mentre la notte avanzava, Sam si distese sul letto con Petra accanto. I suoni del mercato del sabato riecheggianti in lontananza lentamente divenivano festa, portando con sé un senso di comunità e appartenenza che in fondo lo rincuorarono molto. Era stanco dalla lunga traversata e dal pomeriggio di lavoro obbligato ed imprevisto. 

Invece che un viaggio, si sentì come se stesse vivendo un’avventura, senza esser sicuro che la cosa gli piacesse del tutto. Forse, si disse, era vero per tutti coloro che in un’avventura ci si trovavano loro malgrado.

Capitolo II

Ricordo bene la prima volta in cui vidi uno dei Custodi delle Torri, fu durante l’assedio di Revenn. L’imperatrice di Sangue aveva portato la città allo stremo, dopo mesi di spietati assalti alle mura ed alle alte torri, mentre Re Ætheldren si preparava ormai all’ultimo disperato assalto in cerca dell’onore dei suoi antenati: se non poteva salvare la sua gente ed i suoi soldati, si era ripromesso, li avrebbe portati con sé in gloria nella casa dei suoi padri. Fu all’aprirsi delle porte della capitale, con i due eserciti ruggenti pronti a scontrarsi per l’ultima volta sul campo di battaglia, che il Custode comparve là nel mezzo della terra di nessuno. Non si udì più un rumore, non un suono echeggiò per la pianura in quegli istanti. Alzò una mano al cielo e mise fine quel giorno alla Guerra dei Cento Anni. – Brenn Adernacht, “Cronache della Guerra dei Cento Anni”

Il titolo del libro recitava “Delle parole del mare”. Impresso in caratteri dorati nell’antica quanto dimenticata lingua degli Aelsir, quel libro custodiva al suo interno secoli di saggezza su quella particolare arte magica che aveva un tempo scosso le fondamenta stesse dei grandi mari, consentendo alle Genti delle Coste di estendere il proprio dominio più di chiunque altro prima di allora. 

Com’era destino per tutti gli imperi, secoli di espansione ed attriti avevano portato all’inevitabile caduta di quella orgogliosa civiltà. Le genti si erano disperse, le città erano state abbandonate per finire poi in rovina e gli dèi della Costa erano lentamente svaniti nel nulla, dimenticati. 

Fu in quegli ultimi giorni del regno che i più saggi decisero di vergare ad imperitura memoria i loro segreti in un magico tomo che potesse un giorno riportare la gloria dell’Impero delle onde al suo antico splendore. Riversarono nelle sue pagine la loro conoscenza, e la loro speranza. 

Non è affatto chiaro come il libro fosse poi finito nella Torre di Cinquecolli, ma un raggio di sole, filtrato tra le crepe delle vecchie imposte, ne illuminava ora la copertina di cuoio logorata dall’interminabile passare del tempo. Vi era sopra poggiata una bugia con una mezza candela sciolta, che Sam non aveva avuto modo di spegnere prima di addormentarsi la sera precedente, colto dall’improvvisa quanto inevitabile stanchezza per il lungo viaggio ed i primi lavori domestici. 

Nonostante fosse tutto chiuso, il caldo sole mattutino trapelò all’interno della stanza tra gli scuri malandati, centrando il volto del piccolo Sam e svegliandolo in malo modo. Era ancora affaticato dal giorno precedente e con una strana sensazione di disagio addosso. Dormire in un posto sconosciuto non gli era piaciuto granché, dopotutto, anche se doveva ammettere che il letto era risultato piuttosto comodo. 

Sempre meglio del retro di un carro…e niente sogni strani questa volta, per fortuna. Sono proprio crollato…

Si stiracchiò, scese dal letto, sistemò la camera e si diede una ripulita. 

Solo sì, ma comunque presentabile, pensò, ignorando la sua testa mora perennemente spettinata. 

Non v’era traccia di Petra nella stanza, ma dopo essersi trascinato sbadigliando in cucina la trovò lì a fissarlo con i suoi occhi azzurri, seduta sul grosso piano da lavoro in pietra quasi lo stesse rimproverando per il ritardo. Quando lo vide arrivare emise un miagolio sommesso, girò su se stessa e rivelò un grosso anello con diverse chiavi agganciate.

“E queste da dove saltano fuori, Petrina?” disse prendendole in mano, “Dimmi che aprono tutte quelle porte chiuse che abbiamo trovato ieri. Non mi piace l’idea di restare qui con tutte quelle porte serrate. Sa di mistero ed è abbastanza opprimente…prima però, un tè. Non si può cominciare una giornata come si deve senza un buon tè caldo” 

La micia parve estremamente fiera del suo operato, e rimase a supervisionare le operazioni di preparazione della bevanda.

Perlomeno pentole e stoviglie non mancavano. Negli scaffali, come appese al muro, sembrava che ci fosse qualsiasi tipo di tegame mai ideato per gli utilizzi più disparati. Pentolini e pentoloni, casseruole di ogni forma e dimensione, colini, brichi e teiere, arredavano quella e l’altra stanza, oltre a pinze, spatole, palette e mestoli. Si preparò una grossa tazza fumante con l’acqua raccolta dal piccolo pozzo all’ingresso ed i sacchetti di foglie secche che portava sempre con sé e, tenendola stretta tra le mani per scaldarsi un poco, decise di iniziare l’esplorazione della torre. 

Prima di tutto doveva capire bene come erano disposti i vari spazi e magari cercare qualche indizio che gli dicesse dov’era finito il signore di quel posto abbandonato, o perlomeno da quanto tempo qui non ci fosse più nessuno. In un secondo momento avrebbe deciso il da farsi. Sarebbe dovuto forse rimanere lì anche se era solo, o sarebbe stato meglio tornarsene a casa? Casa…

“Vieni anche tu?” chiese alla sua amica pelosa che si appisolò immediatamente sul davanzale della finestra sul lavello 

“Ecco, appunto…”

Cominciò la perlustrazione da solo.

Spese la mattinata addentrandosi per le varie stanze e corridoi, esplorando meglio le camere da letto, la sala da pranzo e l’ampia dispensa che era purtroppo vuota. Le chiavi fecero il loro dovere alla perfezione, assolvendo le sue preghiere. Trovò un grande salotto oltre l’anticamera dell’ingresso, con divani e teche piene d’ogni genere di suppellettili a lui sconosciute, uno studio sepolto da pergamene e mappe d’ogni tipo, la fredda cantina per i cibi e le bevande nelle fondamenta e purtroppo qualche altra porta chiusa. Pareva che più si spingesse lontano dall’ingresso, maggiori fossero le porte a lui inaccessibili. Non lo sarebbero rimaste per molto, si ripromise, ma non era quello il momento di cercarne le chiavi.

Salteranno fuori, saran qui da qualche parte in queste nuove stanze. Magari nello studio…

Ovunque si addentrasse, Sam aprì le imposte per lasciar entrare luce ed aria fresca. Gli odori del giardino e del bosco portati dalla brezza, uniti al sole del mattino, rianimavano le stanze mano a mano che toglieva i teli messi a proteggere tutto dalla polvere e dall’umidità chissà quanto tempo prima e da chi. Si trattasse di una modesta camera da letto con un semplice giaciglio di legno, oppure una piccola loggia da tè con fini sedie in ferro battuto, tutto sembrava sbocciare come fiori baciati dal sole e dalla rugiada dopo molto, troppo tempo. 

Esplorò sia l’interno che l’esterno della torre, con la piccola Petra che ora andava e veniva per i fatti suoi, ma non sembrava voler stare mai troppo lontana. I rovi e le erbacce avevano ormai invaso sia il vialetto d’ingresso che il giardino sul retro. Il frutteto sarebbe stato assolutamente da recuperare, con i suoi numerosi alberi adesso avvolti da folti cespugli selvatici.

Si fermò un attimo, osservando la bassa e tozza struttura, pensieroso. 

Aspetta un attimo…

Rientrò e si diresse velocemente al salotto, davanti all’ampio camino di pietra. Si guardò allora intorno sospettoso, con la strana sensazione che l’aveva finora accompagnato crescente dentro di sé. 

Vuoi dire che…

Uscì di nuovo a guardare le mura della torre e dopo un poco di riflessione confermò i propri sospetti. La torre era decisamente più grande all’interno rispetto all’esterno. Si trattava davvero di una torre magica.

“C’è davvero un mago che vive in questa torre allora…” disse rivolto a Petra, che si stava nel frattempo divertendo molto a corrergli dietro senza comprendere il motivo di tutto quell’andirivieni, “…perché non sia mai che una torre magica non abbia un mago ad abitarla! Tu magari lo conosci anche e non mi dici niente. Antipatica…” aggiunse portandosi le braccia ai fianchi.

“Beh, direi che è ora di affrontare il problema principale che abbiamo qui”

La dispensa era vuota.

Non potendo, né avendo alcuna intenzione, di sopravvivere solo con il pane ed il formaggio che gli erano rimasti, decise che era probabilmente cosa saggia scendere in paese. Avrebbe potuto comprare qualcosa da mangiare con i pochi soldi che aveva e cercare di fare chiarezza su cosa stesse succedendo realmente. 

Pose la tazza di tè ormai vuota nell’ampio acquaio in ceramica della cucina ed andò a vestirsi con qualcosa di comodo ma presentabile. Se doveva mostrarsi come il nuovo custode della torre, voleva cercare di dare una buona prima impressione. Sua zia gli aveva sempre insegnato così.

“Solo perché siamo gente della terra, non vuol dire che non ci si debba presentare per bene” diceva sempre lei quando trovava qualcuno di loro, per qualsivoglia motivo, in disordine. 

Non a caso per il viaggio gli aveva procurato due distinti cambi di vestiario, puliti, cuciti ed orlati da lei stessa. Indossò l’abbondante camicia rossa e sbiadita, che quasi gli arrivava alle ginocchia, stretta da una robusta cintura, gli ampi pantaloni e gli stivali da passeggio. Perfetto per il clima mite che l’avrebbe aspettato quel giorno. 

Petra si appollaiò su una finestra, stremata dalla mattinata di esplorazione, e rimase a guardare Sam con la sua sacca a tracolla che scendeva lungo il sentiero, aiutandosi con uno dei bastoni da passeggio che aveva trovato poggiati all’ingresso.

Il mercato della domenica stava ormai per concludersi quando Sam arrivò nella piazza riparata dall’ombra degli alberi. Il pomeriggio sarebbe stato impiegato a smontare le bancarelle e sistemare i resti della festa che aveva potuto udire la notte precedente. Gli zampilli della grande fontana centrale scintillavano al sole, mentre un paio di anziane riempivano d’acqua grosse orci di terracotta. Le bancarelle rimanevano comunque ancora abbastanza cariche di frutta, verdura e altri prodotti freschi nonostante non ci fosse ormai nemmeno la metà della gente del giorno precedente. Le terre della valle erano fertili e dai raccolti abbondanti, ed i suoi mercati ne erano la testimonianza. 

Sam rimase sorpreso dal fatto che per le strade ed i vicoli ci fossero comunque più persone di quante ne avesse mai viste a casa, persino durante le feste. Anche il signor Sottoquercia sembrava esser già andato via, probabilmente partito all’alba per non far ritorno al cantone di Altopasso a notte inoltrata. 

Si avvicinò quindi alla casa di un’ortolana abbastanza anziana, con un sorriso gentile che le illuminava il volto ed un fazzoletto annodato intorno alla testa, che ispirava una certa fiducia. Stava in quella sistemando vari generi di frutta e verdura in ampie ceste davanti all’uscio della sua bottega, attirando molto l’attenzione del suo povero stomaco.

“Buongiorno,” cominciò Sam con un sorriso timido, incontrando lo sguardo di lei, “dovrei fare un po’ di spesa. Vivo su alla torre, sa’, e…”

“Ah, il nuovo custode!” lo interruppe lei con entusiasmo,  “Che piacere conoscerti. Benvenuto, caro. Io sono Mariaoro, ma tu chiamami pure Ethel come fanno tutti qui a Cinquecolli. Cosa ti posso dare? Ho delle pesche qua che sono la fine del mondo, eh. Me le ha portate oggi oggi la Marisa dalla fattoria dei Trevoci. Provane una, su, senza far complimenti”

“Mi servirebbe un po’ di tutto, in verità” rispose lui addentando una pesca che si rivelò, in effetti, dal gusto eccezionale, “Temo di aver trovato la dispensa della torre vuota ed abbandonata. Come tutto il resto lassù, tra l’altro. Ho giusto le cose per farmi qualche tè e poi sarò nei guai. Frutta, verdura, pane e magari qualche uovo per cominciare?”

Mariaoro annuì e cominciò a riempire un cesto con mele, carote, pomodori, patate e un paio di pagnotte di pane fresco. 

“Questi sono i migliori prodotti che ho, li metto fuori solo la domenica, sai, per la gente di qui,” disse con orgoglio strizzandogli l’occhio, “ma non puoi mica sopravvivere di sola frutta e verdura, eh. Ti servono delle farine, sicuramente, ed il formaggio! Senza un po’ di formaggio, ma come si fa? Ecco, anche qualche uovo fresco delle mie galline. È da molti anni che non c’è un custode alla torre, se ne parlava ancora che io ero piccola, sai…”

“In effetti non è quello che mi aspettavo, non lo nascondo. Non ci vive nessuno, su alla torre? Pensavo di lavorare per un qualche mago, magari un tipo molto vecchio ed un po’ pazzo, sì, ma invece non ci ho trovato proprio nessuno” commentò Sam con una vena di malcelato disappunto.

“Oh, Edren non si vede da mesi, ormai, ma anche quando passa dal villaggio raramente sale alla torre. Non ha mai tempo, è sempre indaffarato e preso da qualche questione che lo porta lontano. Per lo più sta alla locanda, credo abbia anche una stanza lì. Parla con l’Albero, dice, o con il sacerdote, o il sindaco e poi se ne va, così com’è arrivato. Fa sempre così, ormai da tanti anni. Però qui in paese si è sempre fatto voler bene, eh. Ogni tanto ha dato una mano con il cattivo tempo, quando il temporale magari esagerava proprio, oppure se c’era qualche bestia ferita nei campi. Se ci dà un occhio lui, puoi star sicuro che tutto si sistema per il meglio, sia”

“Edren…almeno adesso so come si chiama il mio signore. Credo che nel mentre che aspetto il suo ritorno la cosa migliore sia sistemare un po’ la torre, no? È proprio messa male. Chi non apprezzerebbe una casa sistemata per bene?”

“Oh, questo è lo spirito giusto, giovanotto! Penso che sia una splendida idea. Mia madre diceva sempre che la torre una volta era l’orgoglio della valle, ma è tanto che non è più così. “Bast fort, can’ fort” diceva lei, “Torre forte, valle forte”, nel vecchio dialetto, ma sembra quasi che la gente qua se lo sia dimenticato…” commentò Mariaoro scrollando la testa, mentre iniziava a riempire un’altra cesta.

Sua madre… pensò lui, riflettendo su quanto tempo dovesse esser passato da allora …da quanto è abbandonata quella torre?

“C’è molta eccitazione nell’aria per questa grande novità. Cioè il tuo arrivo, s’intende. Non succede mai niente di particolarmente nuovo nella valle, sia, che un nuovo guardiano della torre era proprio quel che ci serviva” 

“Speriamo sia vero” rifletté lui ad alta voce, “Non riuscirò mai a portare su tutta quella roba da solo mi sa,” disse indicando le ceste che Ethel stava riempiendo d’ogni ben di dio, “le dispiace se lascio qui un po’ di cose e faccio più viaggi avanti e indietro?”

“Oh non ti preoccupare, manderò su un garzone del mercato, appena ne passa uno. Dirò anche al Patrizio di preparare delle farine, Mario ha i formaggi,” commentò facendo mente locale mentre sceglieva i meloni con la solerzia di un gioielliere che controlla la purezza dei diamanti, “penserò a tutto io”

“È molto gentile da parte sua, davvero” fece Sam con un po’ di imbarazzo. Era sempre stato lui il garzone, prima di allora, e questo trattamento da signore lo mise assolutamente a disagio. 

“Per il custode della torre ci mancherebbe! È un piacere”

Mariaoro si interruppe, pensando per un momento. 

“Dovresti parlare con il George, è il nostro falegname, sia. Se hai intenzione di sistemare un po’ di cose, lui è probabilmente la persona più giusta. Non è uno di noi, sia, è un elam,” sottolineò abbassando la voce, “ma è molto bravo ed ha aiutato molti con le fattorie, da queste parti. Vive proprio alla fine del villaggio, su vicino al vecchio mulino. È grosso e brontolone, quando lo vedrai non potrai sbagliarti. Lui sicuramente ha tutto quello che ti serve”

Sam la ringraziò moltissimo e si diresse allora verso la casa di George, perché il giorno stava avanzando e non voleva rientrare alla torre col buio. Non fu nemmeno un’impresa facilissima. 

Appena usciti dalla strada principale, il villaggio diveniva un dedalo di sentieri e vicoli stretti, tra alberi e siepi, tra salite e discese, con portoni e cancelli che apparivano e scomparivano tra la rigogliosa vegetazione. Quando sentì il rumore del mulino, mosso dalla placida corrente del fiume, uscì finalmente dai confini del villaggio e si trovò davanti una casa modesta ma ben curata, per metà avvolta dall’edera, con un cartello che mostrava la scritta “Falegname” appeso alla porta. 

George era un Lepre molto più alto di un Nami adulto e molto robusto, con mani grandi,  callose e ricoperte di corta pelliccia. Sam non ne aveva mai visto uno prima d’ora, o meglio, gli era capitato di vedere degli elami, gente che pareva animale fatta persona, ma non aveva mai parlato con uno di loro in vita sua. 

“Non è uno di noi” ricordò.

Stava lavorando su una grossa sedia, masticando nel frattempo un qualche tipo di erba, quando Sam arrivò. Non mancò di tirargli un’occhiata circospetta, quando vide il piccolo nami avvicinarsi.

“Salve, sono il nuovo custode, sù alla torre. Mi…mi chiamo Sam. La signora Mariaoro mi ha detto dove potevo trovarla e…quindi eccomi qui” disse cercando di nascondere il nervosismo.

George si alzò accigliato “Piacere di conoscerti, Sam” pulendosi le mani su un grembiule. “La vecchia torre? Pensavo fosse crollata anni fa. Non passo dalla vecchia collina dall’ultima festa del gregge. Come ti è venuto di andare in un posto del genere? Di cosa hai bisogno?”

“Non è ancora crollata, ma di questo passo non penso manchi molto, sinceramente. Non sono sicuro di cosa ci sia da fare di preciso, ma penso d’avere intenzione di riparare la torre per bene perché è stata abbandonata a sé stessa per troppo tempo, credo, e ne porta i segni addosso”

“Devi essere più preciso ragazzo, così non è che possa aiutarti molto, eh. Se hai bisogno di una porta nuova, o una finestra, è un conto, se dobbiamo ricostruire una torre, invece, è un altro. C’è bisogno di una squadra, attrezzi, tempo, denaro. È un discorso diverso, con impegno e tempi molto diversi”

“Ah, giusto. Non ci avevo pensato, in effetti. Non saprei di preciso. Le imposte son tutte rotte, si chiudono a malapena e lasciano passare comunque un sacco di luce. La staccionata ha visto anni migliori sicuramente. Cos’altro…”

“Facciamo così” lo interruppe l’altro, spostando dalle spalle le sue enormi orecchie leporine, “Posso salire sù, una di queste mattine, per dare un’occhiata e vedere di cosa abbiamo bisogno. Non sono mai stato alla torre prima d’ora e la camminata con questo sole non mi entusiasma. In più sono pieno di lavoro come puoi vedere” sbuffò indicando il mucchio di sedie, panche, ceste e cornici che riempiva il laboratorio di quell’odore di legno appena lavorato. “Non ti prometto niente, eh”

“No, no, va benissimo così. Grazie mille” disse Sam, sollevato “Apprezzo davvero il suo aiuto. Così almeno capirò in che pasticcio mi sono cacciato”

“Felice di vedere una faccia nuova da queste parti” rispose, con un’espressione che sembrava suggerire tutto il contrario.

Sam si congedò lasciando il Lepre al suo lavoro e tornò alla torre con il cesto di provviste per la giornata, sentendosi molto più ottimista. 

Speriamo riesca a darmi una mano…altrimenti mi dovrò inventare qualcosa…un Lepre nella valle di Calmo, chi l’avrebbe mai detto…

Nonostante sapesse fare molte cose e fosse sempre stato un ragazzo molto pratico, in realtà di falegnameria e carpenteria sapeva ben poco. Il suo rapporto con gli alberi era più di farli crescere e raccoglierne i frutti, piuttosto che tagliarli per farne cose. Adesso, però, serviva proprio quello.

Avrebbe dovuto imparare in fretta se voleva diventare un buon custode della torre, pensò, con tutte le riparazioni che c’erano e ci sarebbero state da fare in futuro. C’era poi il tema del denaro. Non aveva trovato monete nella torre, e sospettava di non potersi permettere il costo di un artigiano al suo servizio, visto che di soldi proprio non ne aveva. Bisognava escogitare qualcosa, ma per quello c’era sempre tempo.

Petra lo accolse con un grande sbadiglio ed un miagolio affettuoso e lo seguì in cucina mentre sistemava le nuove provviste nella dispensa, ora meno triste di prima. Si preparò una cena semplice, cucinando alcune delle verdure fresche insieme alle uova e tostando qualche fetta di pane seguendo le indicazioni del ricettario che aveva trovato. Così, giusto per provare un qualcosa di nuovo. Trovando qualche barattolo di spezie, dopo una rapida ispezione olfattiva, aveva infine dato un po’ di sapore alla sua creazione, il che lo rese molto fiero di sé.

Nei giorni successivi, dopo aver sistemato tutte le provviste che la buona signora Mariaoro gli aveva fatto consegnare, Sam si dedicò ai vari nuovi ambienti della torre, pulendo e lavando il più possibile. 

Tutto si poteva dire delle case dei Nami, tranne che fossero sporche o mal tenute, e lui era stato contagiato in parte dalla compulsiva ossessione della zia nei confronti del pulito e dell’ordine. 

Iniziò dal piano terra, dedicando ogni giornata a una stanza diversa. Ripulì la sala d’ingresso, togliendo la polvere e le ragnatele, lucidando i mobili e riordinando gli oggetti sparsi come i vari bastoni da passeggio, che erano adesso ordinatamente raccolti in una grande anfora di rame vicino al portone. Passò poi al salotto, sistemando i vari libri sugli scaffali e spolverando ogni superficie. 

La torre sembrava invasa dai libri. Libri ovunque ed in ogni stanza, risultavano talmente parte integrante della struttura che nessuno si sarebbe sorpreso di trovarne alcuni incastrati nelle fondamenta stesse. A Sam parve in certe occasioni che rimuovere un libro da una pila, nel tentativo di riordinare, gli avrebbe fatto crollare tutto quanto sulla testa. Non era cresciuto in mezzo ai tomi e, seppur sapesse leggere, non aveva mai avuto l’abitudine di spendere il tempo facendolo. 

Più passavano i giorni alla torre, però, più si sorprendeva a curiosare tra le esotiche rilegature che lo circondavano. Era attratto soprattutto dai libri di cui ignorava completamente non solo la lingua, ma anche l’alfabeto stesso. Interrompeva spesso le faccende per curiosare in qualche tomo sconosciuto, o passava la serata vicino alle grandi finestre del salotto sorseggiando una minestra calda, cercando di interpretare figure e schemi incomprensibili. 

Lo studio fu una delle stanze più impegnative, con tutte le pergamene e gli strumenti da mettere in ordine. Cercò di analizzare bene quel che vi si trovava per riuscire a cogliere anche solo un indizio sulla sorte del mago Edren, e per capire se in quel caos vi fosse in realtà un qualche criterio particolare, ma fu del tutto invano. Molte delle carte riportavano di posti lontani a lui sconosciuti, pianure e praterie oltre il deserto, oppure remoti passi montani di catene innevate di cui non aveva mai sentito parlare. In più, la maggior parte degli scritti erano a lui incomprensibili, serie di lettere e simboli che non avrebbe saputo dire se si leggessero da sinistra verso destra oppure viceversa. Non trovando nulla di utile dovette arrendersi e sistemare al meglio delle sue possibilità. 

La cucina e la sala da pranzo richiesero anch’esse molto lavoro, più di gomito che concettuale, ma alla fine riuscì a renderle accoglienti e funzionali quanto bastava. Petra lo seguiva ovunque, curiosa e affettuosa, contribuendo a rendere la torre meno solitaria. Sam si abituò a cucinare per sé e per la sua piccola amica, godendosi i pasti semplici ma soddisfacenti che la sua poca abilità gli consentiva di preparare. Pensava spesso alla Zia che gli aveva insegnato tutto quello che sapeva sul far da mangiare, ma aveva trovato una spalla preziosa nel grosso libro giallo da cui ogni tanto cercava di prendere spunto.

“Non ti annoiavi, tutta sola qua nella torre?” fece rivolto a Petra una sera mentre la piccola si faceva coccolare con una certa soddisfazione. 

“Mi chiedo da quanto sei qua da sola. Ci sono io adesso, però. Adesso stiamo da soli in due”

Ogni giorno si sentiva sempre più a suo agio tra le mura di pietra della vecchia torre. Anche se il lavoro era faticoso ed apparentemente senza fine, c’era un qualcosa di gratificante nel vedere i progressi che faceva. Mano a mano che il tempo passava, quelle pareti diventarono sempre più la sua casa. Una casa difficile da gestire, doveva ammettere, ma che dava grande soddisfazione.

I diversi camini che aveva trovato, ad esempio, dalla sala da pranzo al salotto, alle camere più grandi, erano tutti in un modo o nell’altro otturati ed aveva rischiato più di una volta di soffocare, riempiendo la torre di fumo nel tentativo di metterli in funzione. Ed ancora non aveva nemmeno cominciato a pensare all’esterno. Ogni giorno usciva, magari per stendere i panni o per sbattere qualche tappeto impolverato dalle sabbie del tempo, e buttava un’occhiata sconsolata a quell’enorme sfida che rappresentava il cominciare a metter mano al verde là fuori. 

Una mattina, mentre stava decidendo seduto su una grossa roccia come avrebbe mai raggiunto i camini sul tetto per cercare di liberarli, George arrivò per fare la valutazione delle riparazioni, come aveva promesso. Con il suo passo lento salì il vialetto ignorando Sam e rimanendo sempre con lo sguardo fisso sulla struttura, masticando la sua erba e studiandone la facciata mentre si avvicinava. Fece un cenno al custode quando fu arrivato e sbuffò profondamente. 

“Quindi è questo il malato?” fece rivolto al portone.

“C’è qualche speranza?”

“Buttiamola giù e costruiamone un’altra. Facciamo prima” concluse serio.

“Ho avuto lo stesso pensiero, quando ci ho messo piede dentro per la prima volta”

Insieme, ispezionarono ogni angolo esterno della torre, annotando tutto ciò che necessitava di essere sistemato. La carta e l’inchiostro, di certo, lì non mancavano.

“Almeno le finestre sono a posto” notò George “soprattutto tutte quelle porte-finestre che danno sulla loggia lì dietro. Solo cambiare quelle sarebbe costato una fortuna. Di quelle colorate là in alto non voglio nemmeno parlare. Le imposte son tutte da rifare, vedremo cosa riusciamo a salvare per risparmiare un po’ di tempo” 

In effetti il retro della torre era costellato da ampie vetrate, dando un’immagine molto diversa rispetto alla facciata d’ingresso che era perlopiù di pietra coperta da rampicanti. Il giardino alle spalle era abbracciato da una lunga loggia a colonne ed archi su cui affacciava la fila di vetrate a tutta altezza del salotto e dello studio. Al di sopra della loggia invece si alzavano delle enormi vetrate colorate che ricordavano a Sam quelle di una cattedrale, e coprivano singolarmente due o tre piani in altezza. Non aveva trovato però nessuna stanza ai piani superiori che godesse di quella luce. Dovevano essere gli ambienti con le porte ancora serrate di cui non possedeva le chiavi. Prima o poi si sarebbe dovuto rimediare anche a quello. 

Potevano esserci cose importanti, lì dentro, pensò Sam, ma c’era già così tanto da fare negli spazi a cui aveva accesso ora, che ogni tanto si tratteneva dal curiosare troppo nel timore di trovare altro lavoro da sbrigare.

George, dal canto suo, si dimostrò tanto scorbutico quanto competente, ed anche sorprendentemente disponibile, suggerendo soluzioni pratiche e promettendo di iniziare i lavori al più presto. 

“Non ho molti soldi per pagarla, signor George, e qui c’è così tanto da fare…” chiarì il piccolo nami per evitare di cacciarsi in un ulteriore guaio.

“Hmm, faremo così” grugnì l’altro “verrò su nel poco tempo libero che ho e ti insegnerò come si fanno i lavori che devi fare, così potrai andare avanti da te. Non sono cose troppo complesse per ora, son solo lavori lunghi e noiosi, ma il tempo è ciò di cui io manco e tu abbondi”

Sempre nel cortile, praticamente nascosti dall’erba alta, trovarono delle malridotte stalle, un grande pozzo molto profondo, decisamente più grande di quello all’ingresso che aveva usato finora, ed un ampio laboratorio pergolato. Seppur tutto era in soqquadro ed abbandonato, il laboratorio si rivelò fornito di attrezzi d’ogni tipo ed anche di una piccola forgia. George ne fu entusiasta 

“Non dovrò portarmi gli attrezzi su e giù dal villaggio tutte le volte, e nemmeno trasportare i pezzi finiti con il carretto!” Era la prima volta che Sam lo vedeva sorridere da quando l’aveva conosciuto. 

“Il tuo compito, ora, qua è sistemare tutto quanto,” aggiunse, “così possiamo cominciare coi lavori al più presto. Sei ad un brutto temporale di distanza dal non aver più nemmeno un’imposta appesa!”  sottolineò scoppiando in una fragorosa risata, che mise in fuga la piccola Petra ma rincuorò il giovane custode. 

I lavori per ristabilire la torre erano ufficialmente cominciati.

Capitolo III

C’è un’unica imprescindibile legge nell’universo: non si torna mai indietro. – Michael Fershal, “Incantesimi”

Il Palazzo d’estate sorgeva adagiato tra i cipressi, baciato dal sole alto e fiero nel cielo limpido del mattino. La giovane Al’enar camminava scalza tra gli archi del chiostro, accompagnata dal dolce scorrere dell’acqua nelle ampie vasche ornamentali. Sarebbe dovuta essere a lezione con il suo maestro in quel momento, l’alto sacerdote Salmeter incaricato della sua educazione, ma quella era una mattinata speciale. Quella mattina sarebbero arrivati ospiti a palazzo. 

Non era una consuetudine ricevere ospiti di alcun tipo, fatta eccezione per le varie personalità locali che dalla vicina Sulinam spesso venivano a rendere omaggio o chiedere l’intercessione di suo padre, sua Santità. Al’enar conosceva bene tutti quei volti, che sin da bambina le sorridevano e mentivano per ingraziarsela in quanto figlia di suo padre. Sopportava a stento quella gente e non perdeva occasione per farlo notare in ogni circostanza le si presentasse, ora con un ritardo voluto, ora con un cambio di posto dell’ultimo minuto alla tavola dei ricevimenti. Gli ospiti di oggi invece erano diversi. Imprevisti. Eccitanti. 

Doveva assolutamente vederli.

La sua ampia veste avorio svolazzava mentre corricchiava cercando di non far rumore, evitando l’occhio vigile delle guardie che l’avrebbero sicuramente ricondotta alla biblioteca ed ai suoi studi. Imboccò un atrio di servizio e la scala della servitù che portava agli alti corridoi laterali che cingevano la sala dei ricevimenti. Lì, nascosta tra i drappi dorati e gli intarsi dei pannelli decorativi, avrebbe potuto vedere ed ascoltare tutto. 

Perché padre non mi ha voluto al suo fianco? Non dovrei esser lì con lui ad accogliere l’ambasceria e fare gli onori di casa? 

“Oh no, tu devi studiare”, ha detto. Al’ibis però l’ha voluta lì con sé. Una figlia sì e l’altra no? Che c’entra che lei è la maggiore? Siamo entrambe figlie del Sultaran 

Sono due estati ormai che studio portamento, e poi quando arrivano ospiti importanti me li tiene segreti e mi relega nel cortile biblioteca? Non credo proprio

Trovò il posto adatto in cui accovacciarsi per non esser vista da nessuno, e rimase in attesa che qualcuno si facesse vivo. Dov’erano tutti?

Il Salone dei Ricevimenti del Palazzo d’estate era un’immensa sala, alta più di tre piani di una casa comune, dal grande soffitto a cupola aperto da numerose fessure, così che la luce del giorno entrasse ed il caldo invece ne uscisse. Era molto più grande della modesta e funzionale sala del trono, ed aveva come unico obiettivo quello di impressionare chi vi entrava per la prima volta. 

Tale era la semplice magnificenza di quel luogo, che non ci si abituava davvero mai a vederlo. Al’enar stessa rimase per un attimo incantata dai complessi motivi floreali del lucido marmo che costituiva il pavimento, dai grandi pannelli di legno bianco intarsiato che ne costituivano le pareti, e dai lunghi arazzi dorati che pendevano riportando l’araldica delle sei casate e della famiglia divina, gli dèi delle pianure che custodivano il regno del Misra. Il loro regno. 

Minri, il segretario di suo padre il Sultaran, fu il primo ad entrare dalla porta laterale, seguito poi da sua sorella Al’ibis, da suo padre e da sei guardie in veste da cerimonia. I terribili Asal’kan del Sultaran erano le guardie personali di suo padre, temuti per la loro abilità e ferocia. Ad Al’enar non erano mai piaciuti. 

Soprattutto Kimri, il pupillo di suo padre, un uomo serio dallo sguardo spietato che non le aveva mai riservato nemmeno l’accenno di un sorriso. Quale dei sei fosse, però, non le era dato modo di capirlo ora, in quanto le armature da cerimonia che indossavano ne nascondevano ogni sembianza umana. Sembravano quasi delle statue color sabbia, addobbate di preziose gemme, e messe vicino al trono per una qualche funzione rituale. Erano invece sei guerrieri, silenziosamente allerta e pronti a difendere il loro signore alla minima occorrenza.

Suo padre stava conversando con Minri, quando due inservienti entrarono correndo, si inginocchiarono innanzi al trono di rappresentanza e riferirono qualcosa all’orecchio del segretario, prima di congedarsi correndo via.

“Stanno arrivando” sentenziò il magro e brutto funzionario, con quel suo naso arcigno che le aveva sempre dato fastidio. Altre guardie entrarono, disponendosi in file ordinate vicine all’ingresso e creando un largo corridoio che portava allo scranno reale.

Sono un sacco di guardie per il Palazzo d’estate…

Quando il grande portone fu aperto e la brezza poté finalmente entrare liberamente, Al’enar spalancò gli occhi trattenendo il respiro incredula. Le voci erano vere, nessuna esagerazione. 

Quindici Leoni del deserto entrarono al cospetto di suo padre. 

“L’ambasceria del Regno del Sole del Sindain. L’ambasciatore sua eminenza Niin’al Ywildolen ed i consiglieri, loro eminenze Gwy’el Tsurinal e T’lesh Iwidal!” annunciò l’araldo reale al loro ingresso. 

Erano enormi, con teste e braccia altrettanto grandi, e seppur camminassero leggermente chini, per quella loro postura animalesca tipica e minacciosa di cui aveva tanto sentito parlare, la più alta tra le guardie arrivava loro malapena alla spalla. Non avevano armi con sé, probabilmente consegnate all’ingresso a palazzo, ma non ne avevano alcun bisogno, pensò lei. Erano loro stessi le armi, con le temibili zanne ed artigli di cui disponevano. Le leggende erano vere. 

Vestivano con fini e ricamate tuniche del deserto, più abiti da viaggio che da palazzo reale, ma che presentavano una raffinatezza nella fattura che non si era aspettata di vedere in creature tanto selvagge. Si fermarono ordinatamente davanti al Sultaran e si aprirono lasciando spazio al centro a tre di loro, dall’aspetto più ricercato e dai ricchi gioielli che ne adornavano le orecchie, il naso e le mani. 

Quindi sono loro i diplomatici, gli altri saranno solo le guardie? Ne sarebbero bastate tre o quattro, guarda quanto sono grandi, oddio 

Per un attimo la giovane principessa fu felice di non esser lì davanti a loro, sotto gli occhi di tutti, e fissò lo sguardo sulla sua povera sorella, che sorrideva come se avesse appena ricevuto un invito a bere il té con le amiche giù in paese. Come faceva ad essere così disinvolta?

“Siete al cospetto di sua santità il Sultaran, Re dell’Invalicabile Regno sotto al Grande Cielo, Signore investito delle pianure del Misra, undicesimo del suo nome” 

I tre Leoni si inchinarono davanti a suo padre e sulla sala piombò il silenzio, rotto solo dal cinguettio degli uccelli che giocavano tra gli zampilli delle fontane nel giardino.

“Vi prego, alzatevi. Signori ambasciatori, vi do il benvenuto nel mio palazzo e nel regno dei nostri dèi. A cosa dobbiamo una tale visita? Sono passati centotrentacinque anni dall’ultimo signore del deserto che ha messo piede oltre il valico della Clessidra nelle nostre pianure”

“E sempre sia benedetto quel giorno, mio Signore, il giorno in cui venne siglata la pace tra le nostre genti. Preghiamo ad altri centotrentacinque anni di pace” rispose l’ambasciatore con una rauca e profonda voce.

“Che la pace sia il nostro destino, allora”

“Veniamo al vostro cospetto in cerca di risposte, e del vostro aiuto, sua santità. Siamo alla ricerca di un pericoloso ricercato, un reietto della nostra gente che è partito in fuga verso i verdi prati su cui regnate. Stiamo dando la caccia ad un criminale”

“Un criminale…un Leone nelle nostre terre?”

“Precisamente, mio signore”

“Non sono al corrente di nulla di tutto ciò. Il che mi perplime molto. Da un lato sono certo della veridicità delle vostre affermazioni, dall’altro sono altrettanto certo che un evento di simile portata sarebbe sicuramente giunto alle mie orecchie, vista la pacifica esistenza condotta dalla nostra gente. Mi date molto da riflettere”

“Sono lieto delle vostre parole, vostra santità”

“È deciso allora, sarete miei ospiti a palazzo fintanto che non saremo venuti a capo di questa situazione. Spero avrò il piacere d’ospitarvi per la cena di questa sera, e domani avremo un colloquio privato così da meglio affrontare la questione”

“La vostra saggezza e magnanimità sono degne della vostra reputazione, sua santità” fece il Leone chinando il capo gentilmente, “siamo lieti d’accettare il vostro invito e la vostra accoglienza. Non possiamo però accettare rimanendo in vostro debito. Vi portiamo quindi un dono dalla nostra terra, che speriamo sarà di vostro gradimento” 

L’ambasciatore Ywildolen fece un segno ad una delle sue guardie. Questa prese dalla schiena un grosso disco avvolto in ampi teli di cotone, lo posò a terra ai piedi degli scalini che conducevano allo scranno reale e ne rivelò uno splendido scudo in ceramica. 

Ceramica dell’Almara! pensò Al’enar con un fremito che le percorse la schiena.

“Siate così gentile d’accettare il nostro scudo come dono, così che noi si possa rimanere vostri ospiti senza debito d’onore. Sia, questo, simbolo della pace che ci lega e della purezza dei nostri intenti”

“Siamo lieti d’accettare il vostro dono” rispose il Sultaran facendo gesto a Minri di prenderlo, “Non vediamo l’ora di brindare questa sera insieme a voi”

“Vostra santità” fece in risposta l’ambasciatore inchinandosi nuovamente. L’ambasceria venne quindi condotta dagli inservienti fuori dalla sala dei ricevimenti, in direzione dei loro alloggi al di là dei giardini. 

Quando tutti furono usciti, ed il silenzio tornò a regnare tra i marmi e gli intarsi nella roccia calcarea, Al’enar si rese conto di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo e riprese nuovamente a respirare. Non aveva mai visto nulla di simile prima d’ora, e si accorse che le stavano tremando leggermente le mani. 

La sera sarebbe arrivata presto. Su ordine di suo padre, le restanti lezioni della giornata le erano state cancellate, ed i maestri rimandati ai loro alloggi per prepararsi al banchetto di benvenuto con i loro temibili ospiti. Anche lei era stata istruita di prepararsi a ricevere i membri dell’ambasceria, i tre pittoreschi diplomatici che avevano attratto tanto la sua attenzione quella mattina. Aveva chiamato subito Eva ed Ada, le sue ancelle e più care amiche, perché l’aiutassero nei preparativi. La raggiunsero nella calda afa del primo pomeriggio nella sua stanza da bagno, un’ampia sala aperta su tre lati da un bianco colonnato che affacciava sul giardino sottostante.

“Ragazze, voglio essere meravigliosa stasera. Una principessa come Rhama’ della leggenda”

“Uuuh, non sanno cosa li aspetta, quei pelliccioni insabbiati!” risero le due amiche mentre la lavavano accuratamente nella grande vasca dal mosaico celeste, interrata al centro della stanza.

“Non mi hanno invitato al ricevimento questa mattina, ci potete credere? Come se padre volesse tenermi nascosta, che assurdità. Al banchetto rimarranno tutti a bocca aperta, si chiederanno come mai non ci fossi anch’io stamattina insieme a loro”

“Devo dedurne che questa mattina il povero Salmeter ti abbia cercata nuovamente per tutte le stanze e giardini del palazzo perché hai saltato la lezione?” chiese la saggia Ada.

“Beh ma cos’avrei dovuto fare? Erano più di cent’anni che non si vedeva un Leone nel Misra, avrei dovuto aspettare altri cent’anni? Metti che non si fossero fermati per il banchetto, sarei stata lo zimbello di tutta la famiglia”

“Tua madre non ha visto i Leoni del deserto, ma dubito sarà lo zimbello di qualcuno” sottolineò la minuta Eva.

“Ma madre è ad Adlesir con gli dèi. Non gliene si può fare una colpa per non esser stata al ricevimento. Io sono qui! Non me lo sarei mai perdonato. Chissà cosa passava per la testa di mio padre quando non mi ha invitata” 

Al’enar uscì dalla vasca, le sue forme sinuose stagliate contro il sole del primo pomeriggio, subito coperta da una leggera tunica di seta. Notò che dalla torre, con la sua cupola a cipolla slanciata verso il cielo azzurro, partì veloce una colomba messaggera. Era diretta proprio verso Adlesir, la capitale del loro regno, dove la Corte degli Dèi sedeva in tutta la sua gloria circondata dai suoi sacerdoti. 

Chissà come mai hanno mandato un messaggio solo ora. Padre si sarebbe premurato di inviare una missiva appena saputo dell’arrivo degli ospiti, ed un’altra magari subito dopo il ricevimento. Ma ora? Che senso ha? pensò lei guardando il messaggero che si perdeva nella luce dell’orizzonte.

“Beh ma, parlando seriamente, qualche Leone carino tra le guardie?” chiese Eva. Le tre si guardarono per un secondo in silenzio e poi scoppiarono in una complice risata.

“Eww Eva! Sono bestie!”

“Ahahah lo so, lo so. Ma una non può mai dire, non ho mai visto un Elam prima d’ora, magari sono carini!” rincarò continuando a ridere.

“No, posso assicurarti che non lo sono! Sono davvero degli animali che camminano come delle persone. Fa quasi impressione, all’inizio. Hanno delle mani enormi, cioè oddio, sono tutti enormi, sono altissimi e fanno davvero paura”

“Più alti di Tu’rek?”

“Più alti di qualsiasi uomo, Eva. Tu’rek probabilmente non gli arriva nemmeno alla spalla. Sono impressionanti, con grosse zanne e gli artigli”

“Oh santi dèi, che immagine terribile” fece Ada, che non sembrava particolarmente attratta dall’idea di avere gente tanto pericolosa alloggiata nel palazzo degli ospiti.

Mentre parlavano, le ragazze presero a pettinare i capelli della principessa e ad impreziosirne la pelle con oli profumati.

“Ma cosa sono venuti a fare?” chiese Ada.

“Hanno detto che stanno cercando uno di loro”

“Uno di loro?” le fece eco Eva.

“Uno di loro, sì. Dicono che un pericoloso criminale della loro gente è scappato dalle loro terre, ha passato la Clessidra, ed ha fatto perdere le sue tracce nelle nostre pianure. Loro adesso lo stanno cercando, e chiedono a mio padre aiuto ed informazioni”

“Che storia incredibile. E come avrebbe passato la guarnigione che sorveglia il passo senza farsi vedere?”

“È quel che ho pensato anch’io, e dev’essere quel che ha pensato anche il Sultaran. Padre sembrava davvero non saperne niente, anche se ultimamente è diventato più abile a mentire rispetto al passato, per questo ha invitato loro a fermarsi per la notte. Penso abbia subito radunato gli Asal’kan e li abbia incaricati di scoprire quanto più possibile sull’argomento. Io avrei fatto così. Se non riescono a venirne a capo loro, nessun altro può farlo”

“A me fanno più paura che altro, non sono come le altre guardie” sentenziò Ada.

“Soprattutto quel Kimri, il cocco del Sultaran. Lui fa più paura di tutti” annuì Eva mentre cominciava ad acconciare i capelli prima di passare al trucco.

“Dicono che abbia ucciso degli uomini, prima di prendere servizio presso il palazzo, e che il Sultaran stesso gli abbia fatto grazia in cambio di eterna servitù”

“Oh, io avevo sentito che era un maestro una volta, invece. Che aveva perso tutto, ed il Sultaran ha avuto pietà di lui e lo aveva preso al suo servizio”

“Sono tutte storie di prima che io nascessi, ragazze. Era già al servizio di mio padre quando sono nata, ed ancora devo vederlo sorridere una volta. Ogni tanto non sono nemmeno sicura che sia umano come noi, sembra una statua di cera che ha preso vita. Impassibile ed ubbidiente. Si Sultaran. Subito Sultaran. Come comanda, Sultaran. Vado in bagno Sultaran. Sono tornato, Sultaran”

Si misero tutte e tre a ridere cercando di non fare troppo rumore. La sala era pur sempre completamente aperta sull’esterno, e seppur nessuno si sarebbe mai sognato di spiarle in quel momento, non si poteva non udire quel che si era udito anche solo per sbaglio. Qualche guardia vegliava sempre sulla principessa, e loro lo sapevano bene.

“Basta, parliamo d’altro, questi discorsi mi stanno mettendo ansia, dèi lodati”

“Ci saranno ragazzi carini al banchetto stasera, principessa?” chiese Ada sorridendo.

“Magari i tre figli del medico Mesk’har giù al paese, sono uno più grazioso dell’altro” rincalzò Eva ammiccando verso l’amica.

“Oh è vero. Non ci avevo nemmeno pensato! Ero così concentrata su quei dannati Leoni che nemmeno ci avevo fatto caso. Sì, sì, so io cosa mettere allora, stasera”

“Ho già paura”

“Prendiamo il vestito coi dischi dorati” disse Al’enar specchiandosi alla toeletta d’avorio alla quale sedeva.

“Quello coi dischi dorati?” chiese Eva perplessa.

“Perché non presentarsi direttamente nuda, principessa? Non ci sarà molta differenza” fece la più pragmatica Ada.

“Ve l’ho detto, ragazze. Stasera li faccio morire”

Non perdere l’occasione di avere il libro nella tua libreria

Presto potrai trovare le edizioni cartacee dei miei libri su Amazon. Scopri come sfogliarne le pagine possa ispirarti e coinvolgerti.